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Tra i film in competizione al Festival di Montreal , sezione "Cinemas of Europe", il lungometraggiopieri, e mi hanno portato in un ospedale dove mi hanno dato guanti di plastica, medicine, sembrava un episodio di ER. E allora nel film ho messo anche ospedali. Procida è il posto dove andavo da bambina, dove passavo sempre le vacanze e dove vive mia sorella.
D: Come ha scelto gli attori?
R: Maria Grazia Cucinotta è stato uno dei primi nomi che ci è venuto in mente, a me serviva una mediterranea che parlasse inglese. Quando ha letto la sceneggiatura il giorno dopo ci siamo incontrate, ci siamo adorate. Pierfrancesco Favino (anche lui un mediterraneo che parla inglese) è molto bravo nella commedia ma ha anche un fondo amaro, secondo me è un po’ un Ugo Tognazzi di oggi e ha una grande tecnica comica. Volevo qualcosa che facesse ridere, però in certi momenti anche piangere, spero.
D: E il cast americano?
R: In America c’è un tale marasma di produttori e film finti che gli attori non si fidano quasi neanche delle agenzie, le garanzie sono proprio i casting per gli attori. Avy Kaufman, che aveva appena finito “Artificial Intelligence” di Spielberg e ha in genere un cachet di 250.000 dollari, da noi ha preso 10.000 dollari e quando ci siamo conosciute siamo diventate amiche. Gli americani si fanno dare un sacco di soldi, ma accettano anche di lavorare solo per passione, è stata una fortuna pazzesca perché siamo riusciti ad avere Brooke Shields e Chevy Chase, che sono 2 star, a paga sindacale. Quando ho conosciuto Brooke Shields le ho raccontato un aneddoto e si è fatta un sacco di risate. Quando avevo 12, 13 anni andai a vedere Laguna Blu ed ebbi il primo orgasmo, spontaneo, della mia vita per la scena d’amore tra loro due, io non capivo veramente neanche cosa fosse… Quando è arrivata sul set abbiamo chiacchierato poi mi ha detto che era incinta di 3 mesi. A maggio ha avuto una bambina, Rowen, significa ruscello in irlandese, il marito Chris, uno sceneggiatore, ha origini irlandesi. Con Brooke avevo una fifa viola, il primo film, una napoletana che doveva dirigere un’icona del cinema americano come lei e Chevy Chase… Ma non hanno mai messo in discussione nulla. Diego Serrano invece, Raoul, l’avevo notato in 24 Ore Donna di Nancy Savoca, una regista che adoro perché fa commedie molto intelligenti con personaggi femminili molto forti.
D: Com’è andata con le collaborazioni tecniche e artistiche?
R: Avevamo deciso di girare in digitale per motivi produttivi e perché si poteva ottenere al meglio quella densità e saturazione di colori che volevo per il film, ma ero terrorizzata, perché tutti i film in digitale che vedevo non mi piacevano. Ho trovato il direttore della fotografia, Paolo Ferrari, uno dei pupilli di Storaro, perché ero andata a vedere “Quello che cerchi” e non si vedeva che era in digitale. Ha usato talmente bene le luci che ha trattato il digitale come pellicola. Abbiamo usato lenti Zeiss e le macchine CineAlta della Sony in Alta Definizione, le stesse con cui hanno girato Star Trek. Per la prima volta la Zeiss aveva fatto delle lenti per macchine da presa digitali, soprattutto il Fish Eye, il grandangolo, io volevo un film esagerato, un po’ grottesco, un po’ distorto, colori molto saturi, molto densi, e ha risolto molte situazioni perché bisogna illuminare di meno, prendere meno fuochi. Siamo stati i primi in assoluto a usare le Zeiss per il digitale. Sul set la cosa meravigliosa è che tu giri e la sera stessa vedi tutto quello che hai girato esattamente nel formato che hai girato poi, non costando, riprendi tutto, anche le prove e durante il montaggio mi sono accorta che spesso le prove erano la cosa migliore.
D: Parliamo delle musiche del film e della canzone “La forza delle donne”.
R: Sulle musiche non ho mai avuto dubbi, mio marito è compositore, quindi non ho dovuto fare provini, Guido Freddi ha un grandissimo talento e se avesse un po’ più di ambizione già altri l’avrebbero scoperto, soprattutto per i film. Aveva già fatto cortometraggi e le musiche per un film di Gianni Polidoro, ma purtroppo Polidoro è morto prima di concluderlo, quindi questo è il suo primo vero lungometraggio che la gente vedrà. Io volevo mischiare il cinema anni ’60 italiano con il jazz, la salsa, le musiche che si sentono a New York e lui ha fatto una colonna sonora molto eclettica, 42 pezzi dalla musica classica al rap, al jazz, alla salsa, al rock. Poi la casa discografica per la colonna sonora, la BMG, rappresentava anche Gigi D’Alessio, un mio amico di vecchia data, abbiamo fatto il conservatorio insieme a Napoli, io avevo 12 anni, lui 13, poi ci separammo per il terremoto dell’80... Lui ha subito partecipato con molto entusiasmo, gli avevamo chiesto la canzone dei titoli di testa o di coda, volevo esaltare appunto la forza delle donne, dimostrare che ce la possono fare da sole anche senza gli uomini, e ha fatto una canzone bellissima, “La forza delle donne”, che ricorda molto i gospel, molto melanconica però con la frenesia newyorchese dentro, veramente giusta per il film.
D: Come le è venuta l’idea del sandalo con la spugna?
R: Volevo esaltare l’artigianalità degli italiani, che in America è completamente sparita perché lì tutto è plastificato, liofilizzato, inscatolato. Volevo che Maria facesse un lavoro con le mani, una metafora di come si dovrebbe intendere la creatività, anche quando uno si mette a fare regia, musica, dovrebbe lavorare con una mentalità da artigiano, senza pensare di essere inspirato da chissà cosa. E ho pensato alla spugna perché volevo che il sandalo ricordasse il mare, avevo pensato alle conchiglie, ai sugheri delle reti, poi mi era venuta l’idea della spugna, la fantasia ha galoppato e ho immaginato che la spugna avesse delle tossine che eliminassero la puzza di piedi, che con la spugna il plantare prendesse la forma del piede e la scarpa diventava ortopedica, mi sono sbizzarrita a trovare qualcosa che ricordasse il mare. Poi serviva un tessuto speciale che proteggesse la spugna e allo stesso tempo fosse traspirante, il Biofiber che lei cerca disperatamente per tutto il film e poi alla fine trova. Il sandalo è fatto solo con dei lacci, c’è solo la suola con la spugna e il tessuto che copre la spugna e fa da plantare, e poi ci sono anche dei sugheri di reti di pescatori, perché Maria proviene da un porto.
D: Qual era la situazione prima di incontrare il suo produttore, Massimo Cristaldi?
R: Ci ho scritto un libro a proposito. Ho fatto il giro di tutti i produttori romani, non ho avuto nessun aggancio, nessuna amicizia, ho dovuto bussare porta a porta, alla posta facevo spedizioni di 30, 40 pacchi alla volta, ho tappezzato tutte le produzioni romane con la mia sceneggiatura e tra i pochi che mi hanno risposto ci fu appunto Massimo Cristaldi. L’ho preferito ad altri due che mi hanno risposto e mi è andata molto bene, è stato un produttore molto presente, molto appassionato. Bisognava montare il film, certe cose io volevo tagliarle, lui invece s’impuntava per tenerle, è il contrario del rapporto che si ha normalmente tra regista e produttore. Ha anche un grande talento nel leggere le sceneggiature, il sangue non è acqua, credo che essere vissuto da bambino con i vari Monicelli, Scarpelli che giravano per casa e con quel padre lì… Nei 4 anni che ci siamo frequentati per il film ci sono state delle riscritture, lui è stato molto attento, seguiva ogni passaggio, è veramente un produttore ideale.
D: Secondo lei si prova una sensazione di benessere vedendo questo film?
R: Era uno dei miei primi obiettivi, volevo una commedia molto semplice, universale, che fosse comprensibile in Italia come in America e in Giappone, e volevo che si uscisse con un sorriso. Nelle proiezioni mi giro e guardo la gente di sottecchi e quando compare il sorriso sono la donna più felice del mondo, so che ho raggiunto il mio obiettivo. Non volevo fare nessuna disquisizione intellettuale, filosofica o ideologica, darmi pose d’autore, volevo tornare al gusto della commedia degli anni ’60 che però fa anche riflettere su certe cose ma non te le spiattella subito. Volevo che la gente pensasse e ridesse senza volgarità, senza culi o tette come nelle commedie italiane, con gusto e una certa grazia. Quando ho scritto il film ho immaginato che lo vedessero degli americani perché hanno una visione più cosmopolita, e questo mi ha aiutato a scriverlo in inglese, poi l’ho tradotto in italiano, anche perché nei corsi a New York non l’avrebbero capito, nelle classi si legge la sceneggiatura pezzo per pezzo. Il fatto di leggerlo in una classe dove c’era un giapponese, uno spagnolo, mi ha costretto ad affrontare le storie in modo più universale; un problema del cinema italiano è che invece rimane provinciale, non si riesce facilmente a raccontare una storia che possa essere vista all’infuori dell’Italia. Ho voluto fare un film sia per l’estero che per l’Italia.
D: E alla voce “genere” come lo definirebbe?
R: Commedia romantica, direi, perché comunque c’è una spinta d’amore di lei verso di lui…
D Sarà questa la linea futura o vorrebbe passare a un genere più drammatico?
R: Ho scritto la storia di una partigiana, mi piacerebbe molto, ma è un film ancora troppo costoso per me, molto impegnativo, quindi credo che farò sicuramente un’altra commedia, anche se mi piacerebbe un film da uno dei miei romanzi, che sono più personali, più legati alla mia famiglia, alla mia vita. Credo che se l’avessi fatto come primo film sarei caduta nel problema italiano della regionalità, invece adesso che, secondo me, ho acquisito un modo di raccontare più universale, potrò toccare degli argomenti più personali.
D: Parliamo del suo ultimo romanzo,“Domani si gira”…
R: L’ho scritto per disperazione negli anni in cui sbavavo per trovare un produttore, è stato uno sfogo, una terapia per tutte le umiliazioni, le frustrazioni di quegli anni, le difficoltà, i produttori allucinanti che facevano proposte sessuali, altri che facevano traffici di cocaina, che me ne hanno dette di tutti i colori, dalle proposte sessuali alle proposte di loro amanti come protagoniste. La mia vendetta è cercare di rendere ridicoli i personaggi che mi hanno fatto soffrire, di riderci sopra. “Domani si gira” è la storia di una ragazza che cerca disperatamente di fare il suo film, che si chiama appunto “Mariti in affitto”, ma è ambientato a Roma. È stata un‘esperienza che mi ha fatto crescere e mi ha divertito, quindi ringrazio tutti questi produttori, mi hanno fatto scrivere un romanzo e forse se non avessi cercato tanto non avrei trovato un produttore bravo come Massimo Cristaldi.
D: Questo è il suo terzo libro?
R: Sì, il primo, “Scosse”, è quello da cui vorrei fare il prossimo film. È il terremoto a Napoli quando avevo 12 anni, una vicenda che si abbatté sulla mia famiglia ma in modo comico, eventi tragici che cerco di raccontare in chiave ironica. Il secondo invece è legato alle esperienze e peripezie dei miei anni da attrice, è la storia di tre ragazzine di varia estrazione sociale ma tutte con la fissa di diventare famose, che si scontrano con la chirurgia estetica e con la gente orribile del cinema. Il primo libro è pubblicato da Pironti, il secondo da Avagliano, un editore molto bravo e coraggioso, perché io ero completamente sconosciuta. Raffaele La Capria che lesse “Scosse” e rimase molto colpito mi ha fatto una bella presentazione per il secondo libro “Luccatmì” con Ruggero Guarini che anche aveva amato molto “Scosse”.
(A cura di Mimmo Morabito)...

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