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Intervista al produttore del film di Ilaria Borrelli "Mariti in affitto", in competizione al Festivche era soprannominato ‘Tabellina’. Altro che il troppo mitizzato produttore tutto fiuto e passione, Cristaldi era un gentiluomo con cui era inevitabile darsi del lei fino alla fine”. Il Principe, così alcuni apostrofavamo suo padre, dava del lei?
R: “Lei è un pazzo, Procacci”, una frase rimasta storica.
D: Fermarsi un anno su una sceneggiatura, altrettanto al montaggio, chiudersi i week-end… Vorrei che parlasse del suo rapporto con Ilaria Borrelli e l’avventura produttiva di “Mariti in affitto”, dalle riprese all’edizione.
R: Si può collegare con quanto dicevamo prima su mio padre. Di stesure della sceneggiatura di “Mariti in affitto” ne abbiamo fatte una ventina, certe con variazioni minime, ma 5 o 6 vere stesure con cambiamenti notevoli nella struttura. Ci abbiamo lavorato molto. Poi, a differenza di mio padre che non andava mai sul set, non gli piaceva molto sentir parlare romano, in fondo era un turinès, io invece seguo le riprese e il set molto da vicino, mi piace molto e trovo che sia importante. Poi la post-produzione, anche lì in sala dalla mattina alla sera seguendo doppiaggio e mix. Io non tralascio nulla, forse sono ancora più maniacale di mio padre, ci tengo molto alle cose fatte bene, non sopporto la cialtroneria, il lasciar correre e sono convinto, senza vanagloria, che la mia presenza costante in tutte le fasi del film aiuti l’autore, aiuti il film – non solo per l’aspetto economico, ma anche per quello creativo. Ilaria mi mandò il suo progetto alla fine del 1999 con una e-mail che mi incuriosì subito. Mi ha sicuramente attratto la storia, ho capito che c’era materiale per un film molto divertente, ma mi ha attratto anche molto lei, come persona, come talento, come storia personale; ho sentito che ce la poteva fare, aveva grinta e urgenza di raccontare, una cosa rara da noi, la voglia di farcela a tutti i costi. Ha fatto molti sacrifici per questo film. Aveva la sua carriera di attrice, la sua vita, disponibilità economica, ma ha lasciato tutto, è andata a New York, ha speso tutti i suoi soldi per studiare regia e sceneggiatura. E ho sentito che aveva talento, sia di scrittura che immaginario, un talento che nasce dalla sua “napoletanità”, la capacità di raccontare il tragicomico e la commedia, unito ad una forte formazione americana in termini di struttura narrativa e visualità. Ho sentito che questo film avrebbe potuto realizzare una vera fusione tra due culture, due stili, due modi di vita e due modi di raccontare. Una commedia all’italiana molto classica, potrebbe essere addirittura il remake di un film degli anni ’60, di Comencini o Germi piuttosto che di Risi, però con delle contaminazioni totalmente americane. L’aspetto un po’ surreale del film, un po’ sopra le righe, ricorda molto certe commedie di Blake Edwards.
Naturalmente con un’esordiente la presenza del produttore, soprattutto se è uno che si dedica anche all’aspetto creativo, è fondamentale. Ho seguito il film con affetto e con passione, non perché non avessi fiducia in Ilaria, ma perché so che dal rapporto dialettico tra produttore e autore nasce il meglio.
D: Immagini Ilaria che si presenta da suo padre. Che battuta avrebbe potuto dire a questa giovane napoletana…?
R:. Anche a lei avrebbe detto “Lei è pazza, Borrelli, perché una che interrompe una carriera di attrice, con soldi, macchina con autista e va a vivere in uno squat, nel Lower East Side…” e senza una lira, con il marito musicista, che impiega i suoi risparmi per studiare, da una parte ti chiedi se ci ha pensato bene, dall’altra sicuramente ti attira, è vera grinta. Sono sicuro che anche mio padre ne sarebbe rimasto colpito.
D: Parlando di sceneggiature, basta solo, come dicono alcuni, sapere scrivere per dono di natura, e gli insegnanti danno solo il format, la struttura? Oppure è importante l’insegnamento americano dell’ingegneria del racconto, della struttura?
R: E’ assolutamente bilanciata tra i due aspetti. Sono convinto che il cinema migliore può uscire fuori se si mette insieme la nostra creatività con la loro, la nostra fantasia con la loro capacità strutturale. E per struttura mi riferisco sia alla struttura e ingegneria della sceneggiatura, dove gli americani sono bravissimi, sia a quella dell’industria del cinema. E’ una grandissima sfida, perché sono due mentalità e approcci completamente diversi, ma se si riesce a unirli si possono fare dei grandi film. Questa è una coproduzione, c’è un apporto tecnico e di attori, quindi anche creativo americano, ma è un film finanziato totalmente dalla mia società e concepito totalmente da italiani. Ci siamo trovati a girare a New York in una situazione anomala, di solito sono gli americani a venire in Italia, ci assumono, ci pagano, ci usano e se ne vanno, ci trattano da servitori. Lì erano loro i servitori, una soddisfazione, perché la cosa un po’ li disturba. Loro hanno dei loro schemi nel sistema di organizzazione del set e delle riprese che producono grande efficienza, però la contropartita è la mancanza di flessibilità, una schematicità che li rende spesso pachidermici e poco duttili, poco fluidi nelle riprese. Lì noi siamo maestri, la nostra arte di arrangiarci, il cui lato negativo è spesso la cialtroneria, ma il lato positivo è la grande fantasia e la capacità di risolvere i problemi. In un momento di difficoltà, di crisi, un produttore con questo tipo di fantasia la soluzione al problema la trova, dall’altra parte trovi sempre solo uno schema rigido. Noi abbiamo un modo di comunicare tra settori della troupe molto diretto, automatico, normale, loro sono estremamente formali in tutto, per cui un assistente non parla mai con il capo di un altro settore, parla solo con l’assistente, un capo parla solo con un capo e sono molto attenti a non scavalcarsi, hanno compartimenti stagni, molto rigidi e questo spesso può cozzare con le dinamiche del cinema indipendente. Poi, data l’origine culturale in gran parte protestante o ebrea, sono dominati dal senso di colpa e se c’è un problema la prima cosa è: “Di chi è la colpa?”. Di fronte a un problema noi diciamo: “Per prima cosa risolviamo il problema, poi vedremo di chi è la colpa”. Da loro si ferma tutto, devono trovare il responsabile perché se non c’è il colpevole non vanno avanti. E’ stato molto duro riuscire ad integrare i due sistemi, i due modi di lavorare, ci abbiamo messo due settimane, ma poi i reparti hanno cominciato a lavorare bene insieme. Il nostro direttore della fotografia Paolo Ferrari, emiliano, assolutamente geniale, creativo, che parla un inglese molto personalizzato, aveva le squadre di macchinisti ed elettricisti tutte di americani ed è nato un vocabolario di inglese totalmente nuovo che a un certo punto parlava tutta la troupe… Ci hanno messo tre giorni a capire cosa volesse dire, però poi alla fine l’usavano anche loro. Il film era stato preparato nei minimi particolari, avevo mandato il direttore della fotografia a New York un mese prima che iniziassero le riprese per fare con Ilaria uno storyboard preciso delle inquadrature. Infatti non si è perso mai un attimo su dove mettere le macchine da presa o sui movimenti degli attori.
D: Questo film è stato girato con le ultimissime tecniche del digitale e poi riversato in pellicola e non si vede.
R: Il digitale rispecchiava anche l’idea visuale del film di Ilaria, con colori molto forti, molto accesi, con contrasti molto forti; ti consente di avere una grande saturazione del colore, che è più difficile da ottenere in pellicola. È chiaro che la grossa difficoltà col digitale è il trasferimento finale in pellicola, ma oggi le tecnologie sono migliorate molto e si riesce a girare in digitale e trasferire alla fine in pellicola senza problemi. Il digitale poi consente di girare moltissimo, non avendo il problema del costo della pellicola, che in un film a budget contenuto è una voce importante, quindi puoi girare anche le prove con gli attori. Questo mette un regista esordiente in una condizione di grande serenità. Ilaria, essendosi formata in America, è assolutamente cosciente e responsabile rispetto ai costi.
D: Questo film quanto costa fino alla prima copia, esclusi i costi di lancio, ecc.?
R: Più o meno 2,5-2,6 milioni di dollari, in euro è più o meno la stessa cosa. Intorno a 5 miliardi di vecchie lire. Parlando del set-up finanziario e produttivo, è stato abbastanza travagliato. Abbiamo iniziato a lavorare sul copione nel 2000 e il film è stato rimandato due volte, una volta non eravamo ancora pronti con i contratti, un’altra perché era incinta Maria Grazia. Ho tentato la strada della coproduzione con il Canada, però in questo caso avremmo dovuto girare il film a Toronto e io, come Ilaria, ho sempre sentito fortemente la necessità di girarlo a New York, è un film che nasce lì, ha bisogno di vedere quelle facce, quelle strade, sentire quegli odori; a Toronto sarebbe stato sicuramente più falso, meno autentico. Nel 2001 avevo chiuso il contratto con la Medusa per la distribuzione in Italia, però non era sufficiente a finanziare tutto il film. Dopo il tentativo con il Canada ho lavorato diversi mesi a cercare finanziamenti in America con investitori privati, equity funds, etc. Era l’estate 2002, dovevamo ancora finire di chiudere il cast americano ed io e Ilaria abbiamo sentito che era il momento di iniziare il film, che non potevamo rimandare oltre. Ilaria l’avrebbe iniziato tre anni prima vendendosi anche la casa. Io ho rimandato quando c’era da rimandare per motivi di cast o per motivi finanziari. A un certo punto ho sentito che se non iniziavamo passava il momento, che il film rischiava di saltare. Mancava una parte dei soldi, ma ho deciso di andare avanti, esponendomi con la mia società. Ecco, questo è il rischio a cui si riferiva anche mio padre. Un rischio calcolato, nel senso che io ho tutte le vendite nel mondo, tranne ovviamente l’Italia che è della Medusa. Per le vendite all’estero, il film è rappresentato dalla William Morris, una grande agenzia americana. Alla fine l’ingegneria finanziaria è molto semplice, il film l’ho finanziato tutto io, in parte grazie al contratto con la Medusa per la distribuzione in Italia, in parte con mezzi propri che mi auguro di recuperare con le vendite all’estero.
D: Anche la fase di edizione, di post-produzione in generale è stata lunga?
R: Molto veloce, efficientissima, nella fase di montaggio a New York con una montatrice americana. Si sente che il film è montato come è girato ed è girato pensando al montaggio, in uno stile molto americano, di grande ritmo, non c’è mai una pausa. Abbiamo finito il montaggio a New York in circa 2 mesi, col Natale di mezzo. Poi c’è stata l’importazione dei materiali digitali in Italia che ha richiesto un po’ di tempo.
D: Acquisizione dei materiali, doppiaggio dell’edizione italiana…
R: Prima tutta la post-produzione della versione originale inglese, il montaggio del suono, le musiche, iniziate a comporre da Guido Freddi in America e poi finalizzate e mixate qui; abbiamo inciso alcuni pezzi con l’orchestra sinfonica a Sofia; il montaggio della presa diretta, la preparazione della colonna effetti e poi il mix finale della versione originale inglese. Poi il doppiaggio della versione italiana. Con Ilaria abbiamo cercato di evitare un doppiaggio impostato, in “doppiaggese”, volevamo che fosse il più naturale possibile. Ilaria ha diretto il doppiaggio; per certi personaggi abbiamo fatto anche 20 provini prima di trovare la voce giusta. Comunque il doppiaggio è una ferita purtroppo inevitabile in Italia, ancora di più in un film che ha due dei protagonisti italiani. Se il film è tutto straniero paradossalmente te ne accorgi di meno. Quando hai due attori italiani con la loro voce, e gli altri americani, e sai che non è la loro voce, lo senti di più.
La post-produzione ha richiesto 4 mesi circa, fino alla copia zero, nelle due versioni inglese e italiana.
D: Per concludere, dopo “Mariti in affitto”, quali sono i progetti della Cristaldi Pictures?
R: Sono convinto che Ilaria sia un’ottima scrittrice e una brava regista, sono convinto del suo talento, mi piacciono le cose che vuole fare e che vogliamo fare insieme. Abbiamo due progetti a cui teniamo molto e che vorremmo fare, ci auguriamo, subito dopo questo. Mi piacerebbe iniziare con Ilaria un percorso di collaborazione stabile, si parva licet, un rapporto alla Silberman-Buñuel, o altri, tra produttore e regista. Poi ho altri progetti in sviluppo con Antonio Falduto, una grossa produzione italo-australiana, Dove sorge il sole, una bellissima sceneggiatura scritta da Falduto e Louis Nowra, un grande sceneggiatore australiano, un triangolo amoroso tra Venezia e il Queensland negli anni tra il fascismo e la seconda guerra mondiale, uno di quei film che si vedono poco oggi, romantico e sentimentale, ma con uno sfondo storico molto importante. Sempre con Falduto abbiamo un’altra bella storia sul più famoso falsario di tutti i tempi, Han Van Meegeren, un olandese che falsificò i Vermeer, l’unico falsario nella storia che riuscì a falsificare non facendo copie di quadri, ma quadri nello stile dell’autore e certificati dai critici dell’epoca come Vermeer. Non ha fatto copie di Vermeer, ha dipinto quadri come Vermeer facendoli passare per autentici.
Sappiamo che in Italia è difficile per i produttori indipendenti mettere in piedi i film, ma ce la mettiamo tutta…
A cura di Mimmo Morabito....

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